27 Agosto 2013

RECCHI, TABARELLI E IL PETROLIO DELLA BASILICATA: STORIA DI UN FALLIMENTO ECONOMICO

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di Vito Petrocelli

E basta con questo potere salvifico assegnato al petrolio lucano. Onestamente, non se ne può più di questa bugia colossale che, dopo 30 anni di priorità economica data alle estrazioni minerarie e alla grande industria, vede la Basilicata primeggiare nella disoccupazione, nell’emigrazione e, secondo l’Istat, nel primato di regione più povera d’Italia.

Prima ci si è messo il direttore di “Nomisma Energia”, Davide Tabarelli, consulente delle società minerarie: ha affermato che il petrolio non inquina e ha accusato gli ambientalisti di bloccare investimenti per 5 miliardi di euro e di far perdere migliaia di posti di lavoro. Dimenticandosi che la filiera del petrolio è ufficialmente riconosciuta come cancerogena e che il più grande “Centro Oli” d’Europa, realizzato a Viggiano, in Basilicata, 18 mila mq. di superficie, costato 16 anni fa l’equivalente di circa 1 miliardo di euro (e che costerà miliardi di euro in bonifiche), ha finora dato occupazione ad appena 57 lucani. Con un po’ di calcoli alla mano, con i 5 miliardi di investimenti minerari di cui parla Tabarelli, forse daremmo occupazione ad altre 200 persone. Non di più.

Ma ci si rende conto del paradosso che oramai contiene questo modello di sviluppo economico che prevede ingenti capitali, costi sociali altissimi e scarso ritorno collettivo? Con una cifra del genere investita nelle piccole e medie imprese lucane, oltre a renderla energeticamente autonoma dal fossile, l’occupazione sarebbe esponenziale e forse ripopoleremmo questa regione, anziché desertificarla.

Poi ci si è messo, al Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione, addirittura il presidente dell’Eni, Giuseppe Recchi. L’azienda del “Cane a sei zampe” fa ricavi da 127 miliardi di euro, estrae annualmente nel mondo quasi 1 miliardo di barili di greggio e più di 100 miliardi di mc. di gas, e Recchi, a Rimini, coglie l’occasione per far sapere alla nazione (e alla Compagnia delle Opere) che il «petrolio lucano salverà l’Italia».

A dispetto del luogo comune che lo definisce artatamente il “più grande giacimento d’Europa in terraferma”, la miniera di idrocarburi lucani, in sostanza, è poco più di una “pozzanghera” di petrolio di pessima qualità.  Produce all’anno solo 30 milioni di barili e circa un miliardo di mc. di gas coi quali copre il 6% del fabbisogno nazionale e annuale di petrolio e circa l’1,5% di quello del gas. Per cui, non si capisce quale ritorno avrebbe la nazione, o meglio l’Eni, nel rendere un colabrodo una regione che, invece, è uno dei più importanti bacini idrici europei, le cui acque, che danno da bere e da “mangiare”, tra la Puglia e la Basilicata, a milioni di persone, di capi di bestiame e di ettari di terreno, sono messe a rischio da perforazioni che le società minerarie attuano in barba a ogni regola sociale.

Noi un’idea, anzi due, per la verità, l’avremmo. La prima è certa: in meno di 8 anni, svuotano “la pozzanghera” per poi fare speculazione con lo stoccaggio di gas. Per la seconda, stiamo ancora aspettando una risposta, sia dall’Eni che dal Ministero per lo Sviluppo economico, per via di una serie di pozzi che, in Basilicata, sono dichiarati per l’estrazione di gas, ma inquinano col petrolio. Fondi neri ed evasione fiscale?

Vito Petrocelli
Portavoce M5S al Senato della Repubblica